Mini-guida facile ad una tematica complessa
Fino al 29 febbraio 2020 la fondazione Cassa di Risparmio di Jesi ospiterà nelle sale al piano terra di Palazzo Bisaccioni una piccola ma importante mostra intitolata “La ferita, tra umano e divino. Arte antica e contemporanea a confronto. Da Francesco da Rimini a Lucio Fontana“. Come indicato nel titolo il tema centrale è proprio la ferita, da sempre simbolo di sofferenza e dolore, simbolo della finitezza umana ma anche varco verso un oltre. Potrebbe essere un concetto difficile, ed il grande rischio di questa mostra è proprio quello di non riuscire a cogliere il sottile nesso logico che lega le opere presenti, poche (sono circa 15) ma essenziali. Noi l’abbiamo visitata una domenica pomeriggio, forse un po’ frettolosamente e senza prenotare la visita guidata, che forse ci avrebbe aiutato a dedicare il tempo necessario alla riflessione e quindi alla comprensione. Questo è proprio quello che vi invitiamo a non fare! Il rischio corso dalla mostra non è indifferente, la stessa curatrice Sara Tassi ha evidenziato come mettere assieme arte antica, realizzata con finalità teologiche, spirituali e liturgiche, e arte moderna ben lontana da tali obiettivi sia stata una sfida. In questo articolo cercheremo quindi di fornirvi una chiave interpretativa, che vi potrebbe aiutare ad arrivare preparati a quello che vedrete.
Le opere in mostra partono da esempi del medioevo umbro-marchigiano: un Cristo deposto della prima metà sec. XIII conservato al Museo Diocesano di Jesi; un Volto di Cristo di Giuliano da Rimini, datato 1320 e proveniente dal Museo della Città di Rimini; una Crocifissione, Vergine Annunciata di Francesco da Rimini, della prima metà sec. XIV proveniente dalla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.
Anche per il Rinascimento umbro-marchigiano le opere di esempio sono tutte legate alla sfera religiosa: un Cristo morto nel sarcofago sorretto da due angeli del 1487 conservato ai Musei Civici di Palazzo Pianetti di Jesi e una Crocifissione del sec. XV, proveniente dal Museo Piersanti di Matelica . Questo perché nel Rinascimento, ma soprattutto in epoca medievale e potremmo dire fino alla contemporaneità, la ferita viene inevitabilmente collegata alla sofferenza di Cristo, e diviene emblema della fragilità del corpo umano e della finitezza dell’uomo, ma al tempo stesso rappresenta il confine tra l’umano e il divino, il mezzo per la resurrezione dell’anima: la ferita intesa in questo senso è ciò che separa il mondo della sofferenza dal mondo della beatitudine. Un’introduzione prettamente religiosa, quindi, ad un tema che rappresenta un archetipo della cultura occidentale, essendo da sempre paradigma per antonomasia della filosofia cristiana.
In epoca contemporanea però la ferita sembra aver perso quella forte connotazione religiosa che aveva nel Cristianesimo, e le opere del secondo novecento introducono una prospettiva puramente laica, che tuttavia mantiene alcuni elementi di contatto con quella religiosa.
Per questo “secondo periodo” sono presenti alcune opere di importanti artisti italiani: di Lucio Fontana sono le due concetti spaziali-attese, uno del 1960 e l’altro del 1964. L’artista, fondatore del movimento spazialista e famoso in tutto il mondo per le serie dei Tagli e dei Buchi, rappresentò all’epoca scandalo e provocazione: queste tele monocrome tagliate verticalmente o diagonalmente fecero a lungo discutere pubblico per la facilità con cui è possibile replicarle, e forse ancora oggi sono difficili da capire. Eppure il concetto e la preparazione che ci sono dietro al gesto del taglio sono unici. Quello di Lucio Fontana non era semplicemente un taglio fatto a caso, bensì era un singolo gesto veloce, istintivo eppure meditato, prezioso, ricco di significati, che quasi diventava una danza. La sua sicurezza nell’incidere la tela era imparagonabile e distingueva le sue opere da tutte le imitazioni che se ne fecero negli anni. Ma cosa rappresenta un taglio? Il taglio è molto più di quello che vediamo: il taglio di Fontana è il gesto che apre la luce al buio e il buio alla luce, è il confine, il varco attraverso cui le emozioni si scambiano, è una metafora visuale dell’inconscio, è una ferita, uno squarcio che rende possibile l’accesso a tutto ciò che si trova oltre, al di là della tela, ed è ancora inesplorato. Ritroviamao quindi la concezione della ferita come varco, ponte, tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile.
Le opere di Alberto Burri presenti in mostra sono due: una Composizione del 1954, sacco, combustione, olio su tela riportato su cartone, ed il Nero Cellotex del 1968, acri vinilico su cellotex. La descrizione che viene data di queste opere è la seguente:
“La povertà dei materiali utilizzati contiene dignità di significato e la scelta della tecnica rappresenta una catartica riformulazione del dolore che lavorato, bruciato, fuso, cucito, assemblato, ri-plasmato dona alla materia una nuova veste.”
http://www.fondazionecrj.it/category/mostre/
Anche in questo caso per capire meglio servirebbe forse conoscere l’artista e il concetto che si cela dietro alle sue opere. La ricerca artistica di Burri è spaziata dalla pittura alla scultura avendo come unico fine l’indagine sulle qualità espressive della materia. Ciò gli fa occupare a pieno titolo un posto di primissimo piano in quella tendenza che viene definita «informale» caratterizzata dal rifiuto di qualsiasi forma (in cui rientra anche lo spazialismo di Fontana), in particolare nella corrente della pittura materica, eseguita con particolari impasti o accostamenti di materiali eterogenei. In particolare Burri sceglie per le sue opere materiali poveri, come legni bruciati, vecchi sacchi di juta, lamiere e plastica, che vengono tagliati, bruciati e riassemblati per diventare qualcos’altro, per diventare Arte. In questo senso potremmo leggere un’altra continuità con la concezione religiosa del tema: la ferita e la sofferenza diventano il mezzo per la nobilitazione dell’uomo, che da povero e materiale diventa beato ed eterno.
L’ultima artista presente nella mostra è Maria Lai, con tre opere: Librooggetto del 1978, Pagine cucite del 1981 e Senzatitolo del 1987. Anche quest’artista presenta la ferita come oggetto di ricucitura, per creare nuove armonie. Il gesto del tessere rappresenta il cuore della poetica artistica dell’artista sarda, considerata una delle figure più significative dell’arte contemporanea. La sua opera più famosa è stata Legarsi alla montagna, realizzata nel 1981 ad Ulassai, suo paese natale, in cui su stimolo di una leggenda locale un nastro azzurro di oltre dieci chilometri ha avvolto case e monti ed ha legato insieme tutto il paese ed il paesaggio circostante. Il significato profondo che collega le sue opere è proprio quello di legare, ricucire, riparare i rapporti tra le persone, e tra le persone ed il territorio. La grande ferita della modernità è l’incomunicabilità, l’egoismo, la chiusura, ed il modo che l’artista trova per sanare questa crepa tutta moderna è una tradizione millenaria: il filo, un filo che avvicina e unisce due lembi separati, un filo che ripara una lacerazione, un filo che crea, una tradizione sicura, perpetua.
La mostra, curata da Andrea Dall’Asta e Sara Tassi, è aperta da lunedì a domenica dalle 9:30 alle 13:00 e dalle 15:30 alle 19:30, l’ingresso è libero e le visite guidate sono gratuite su prenotazione, effettuabiletramite i seguenti contatti Tel 0731 207523 – email info@fondazionecrj.it.
Se l’allestimento di una mostra su un tema così complesso è stata dichiarata una grande sfida, noi speriamo che con queste chiavi di lettura sarà una grande vittoria.